martedì 24 agosto 2010

da Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke

Parigi, 17 febbraio 1903
Egregio Signore,




La vostra lettera m’ha raggiunto solo qualche giorno fa. Voglio ringraziarvi per la sua gran­de e cara fiducia. Poco più posso. Non posso entrare e diffondermi sulla natura dei vostri versi; ché ogni intenzione critica è troppo remota da me. Nulla può tanto poco toccare un’opera d’arte quanto un discorso critico: si arriva per quella via sempre a più o meno felici malintesi. Le cose non si possono af­ferrare o dire tutte come ci si vorrebbe di so­lito far credere; la maggior parte degli av­venimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indi­cibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura.



Premesso questo punto, vi posso ancora sol­tanto dire che i vostri versi non hanno un loro proprio stile, ma sommessi e coperti av­vii a un accento personale. Più chiaro che altrove l’avverto nell’ultima poesia La mia anima. Ivi qualcosa di proprio vuol giun­gere a una sua espressione. E nella bella poe­sia A Leopardi cresce forse una sorta di affinità con quel grande solitario. Tuttavia non sono ancora le vostre poesie cose per sé, indipendenti, neppure l’ultima né quella al Leopardi. La vostra benevola lettera, che le ha accompagnate, non manca di chiarirmi qualche difetto, ch’io ho sentito leggendo i vostri versi, senza tuttavia poterlo designare per nome.



Voi domandate se i vostri versi siano buoni. Lo domandate a me. L’avete prima doman­dato ad altri. Li spedite a riviste. Li parago­nate con altre poesie e v’inquietate se talune redazioni rifiutano i vostri tentativi. Ora (poi­ché voi m’avete permesso di consigliarvi) vi prego di abbandonare tutto questo. Voi guar­date fuori, verso l’esterno e questo sopratutto voi non dovreste ora fare. Nessuno vi può consigliare e aiutare, nessuno. C’è una sola via. Penetrate in voi stesso. Ricercate la ra­gione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luo­go del vostro cuore, confessatevi se sareste co­stretto a morire, quando vi si negasse di scri­vere. Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scri­vere? Scavate dentro voi stesso per una pro­fonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso affrontare questa gra­ve domanda con un forte e semplice « deb­bo », allora edificate la vostra vita secondo questa necessità. La vostra vita fin dentro la sua più indifferente e minima ora deve farsi segno e testimonio di quest’impulso. Poi av­vicinatevi alla natura. Tentate come un pri­mo uomo al mondo di dire quello che vedete e vivete e amate e perdete. Non scrivete poe­sie d’amore; evitate all’inizio le forme trop­po correnti e abituali: sono esse le più diffi­cili, ché occorre una grande e già matura forza a dar qualcosa di proprio dove si offro­no in gran numero buone tradizioni, anzi splendide in parte. Perciò salvatevi dai mo­tivi generali in quelli che la vostra vita quo­tidiana vi offre; raffigurate le vostre tristez­ze, e nostalgie, i pensieri passeggeri e la fede in qualche bellezza, raffigurate tutto questo con intima, tranquilla, umile sincerità e usa­te, per esprimervi, le cose che vi circondano, le immagini dei vostri sogni e gli oggetti del­la vostra memoria. Se la vostra vita quotidia­na vi sembra povera, non l’accusate; accusa­te voi stesso, che non siete assai poeta da evo­carne la ricchezza; ché per un creatore non esiste povertà né luoghi poveri e indifferenti. E se anche foste in un carcere, le cui pareti non lasciassero filtrare alcuno dei rumori del mondo fino ai vostri sensi - non avreste an­cora sempre la vostra infanzia, questa ricchez­za preziosa, regale, questo tesoro dei ricordi? Rivolgete in quella parte la vostra attenzio­ne. Tentate di risollevare le sensazioni sommerse di quel vasto passato; la vostra perso­nalità si confermerà, la vostra solitudine s’am­plierà e diverrà una dimora avvolta in un lu­me di crepuscolo, oltre cui passa lontano il rumore degli altri. E se da questo viaggio all’interno, da quest’immersione nel proprio mondo giungono versi, allora non penserete a interrogare alcuno se siano buoni versi;né tenterete d’interessare per questi lavori le ri­viste: ché in loro vedrete il vostro caro pos­sesso naturale, una parte e una voce della vo­stra vita. Una opera d’arte è buona, s’è nata da necessità. In questa maniera della sua ori­gine risiede il suo giudizio: non ve n’è altro. Perciò, egregio signore, io non vi so dare al­tro consiglio che questo: penetrare in voi stes­so e provare le profondità in cui balza la vo­stra vita; alla sua fonte troverete voi la rispo­sta alla domanda se dobbiate creare. Accoglie­tela come suona, senza perdervi in interpre­tazioni. Forse si dimostrerà che siete chiama­to all’arte. Allora assumetevi tale sorte e por­tatela, col suo peso e la sua grandezza, senza mai chiedere il compenso, che potrebbe ve­nir di fuori. Ché il creatore dev’ essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura, cui s’è alleato.



Ma forse anche dopo questa discesa in voi stesso e nella vostra solitudine dovrete rinun­ciare a divenire poeta; (basta, come ho det­to, sentire che si potrebbe vivere senza scri­vere, per non averne più il diritto). Ma anche allora questa immersione, di cui vi prego, non sarà stata invano. La vostra vita di li innan­zi troverà senza dubbio vie proprie, e che vo­gliano essere buone, ricche e vaste, questo io ve lo auguro più che non possa dire.



Che vi debbo ancora dire? A me tutto sembra accentuato secondo il suo merito; e in fine volevo consigliarvi ancora solo di soste­nere lo sviluppo calmo e serio; non lo potete disturbare più violentemente che se guardate fuori e attendete di fuori risposta a doman­de, cui può forse rispondere solo il vostro piùintimo sentimento nella vostra ora più som­messa.



È stata per me una gioia trovare nella vostra lettera il nome del professor Horaček; io nu­tro per questo amabile dotto un grande ri­spetto e una gratitudine vivace negli anni. Vogliate, vi prego, dirgli di questo mio sen­timento; è grande benevolenza ch’egli si ri­cordi ancora di me, e io la so apprezzare.



Vi rimando insieme i versi che amichevolmen­te m’avete voluto confidare. E vi ringrazio ancora per la grandezza e cordialità della vo­stra fiducia, di cui ho tentato di rendermi un po’ più degno di quello che io, come estraneo, realmente non sia, con questa risposta since­ra, data secondo la mia miglior coscienza.



Con ogni devozione e simpatia


RAINER MARIA RILKE



[Adelphi, 2006 (sedicesima edizione). Originale Insel Verlag, Frankfurt am Mein, 1929.]

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